venerdì 21 gennaio 2011
Michele Cagnazzo tra gli obiettivi sensibili. "Rapporto Ossigeno 2010"
O2 ossigeno per l’informazione.Rapporto 2010
osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza
2/ Questi alzano il tiro
Trentacinque almeno i cronisti
nel mirino in pochi mesi
di Roberta Mani e Roberto Salvatore Rossi
«Caro Sandro, nonostante i tuoi baffoni neri, l’età avanza. Mentre
tuo fratello si è nutrito alla mammella dell’avvocato, tu non
ti fai mancare niente. Ti sei chiesto quanta gente hai rovinato,
quanta ne hai suicidata, quanta ne hai fatta ammalare? […] Tra
un po’ o tra qualche anno te ne andrai, ma aspettare che ti penta
nella sofferenza non si può, per cui ti informiamo che sei il
secondo della lista. Il primo già lo abbiamo schedato e catalogato,
di lui sappiamo tutti i suoi movimenti e soprattutto dei suoi familiari.
[….] Per quanto ti riguarda, fai attenzione, guardati le
spalle quando la mattina esci con i cani (bianco e nero) o quando
vai all’edicola anche se non vai sempre alla stessa. A te e all’altro
rimane solo una possibilità, cambiare città, ma non ve lo consiglierei,
ci fareste perdere tempo e voi ne guadagnereste ma a quel
punto potremmo decidere di far pagare il vostro debito a qualcuno
che vi è vicino nostro malgrado. […] Noi siamo seri abbiamo
atteso troppo tempo, chiama e avverti chi vuoi, nessuno vi
potrà proteggere per sempre».
Una lettera a Sandro Ruotolo
«La lettera mi è arrivata a casa il 3 ottobre scorso preceduta da
una telefonata, sempre a casa. Le indagini sono in corso. Le fa la
Digos di Roma. L’ufficio al quale abbiamo consegnato anche tutte
le altre lettere arrivate alla redazione di Annozero. Tutte più o
meno con lo stesso messaggio: Morirete tutti, Travaglio, Santoro,
Vauro, Ruotolo. Indubbiamente, però la missiva arrivata a casa
mia ha elementi che destano maggiore preoccupazione. È evidente
che mi hanno seguito, che conoscono le mie abitudini. È la
classica tattica dell’intimidazione. Quando esco di casa ancora
oggi mi guardo intorno. Sono meno sereno, questa credo che sia
la cosa peggiore, l’elemento che condiziona l’esistenza: la perdita
della serenità. Anche perché non ho scorta. Massima fiducia, naturalmente,
per chi sta indagando e ha ritenuto che non debba
averla. E però, la minaccia ti fa riflettere, ti fa preoccupare. Ma
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non hai alternative. Ho 54 anni. Non posso pensare di cambiare.
Lo so fare così il giornalista, ho imparato a farlo così, nel modo
in cui l’ho sempre fatto».
Al telefono, Sandro Ruotolo, storico giornalista Rai, collaboratore
e amico di vecchia data di Michele Santoro, attuale conduttore di
Annozero. La lettera minatoria di cui si è molto parlato lo scorso
ottobre, e che «Problemi dell’informazione» pubblica in esclusiva,
è arrivata in un momento molto particolare. Ruotolo stava lavorando
a una puntata sulla trattativa tra mafia e Stato nel periodo
a cavallo tra prima e seconda repubblica. Un patto, che, secondo
le ipotesi più accreditate, avrebbe dovuto ristabilire lo status
quo precedente alle devastanti condanne del maxiprocesso
istruito dal pool antimafia di Palermo negli anni Ottanta. I mafiosi,
dopo la conferma delle condanne in cassazione, cercavano
nuovi referenti politici. E li cercavano a modo loro, manu militari.
Applicando una strategia di attacco diretto allo Stato. Quella
stragista dei primi anni Novanta.
Una puntata importante, non solo per le aspettative dell’opinione
pubblica, ma soprattutto perché rivelatrice di un dato nuovo
e stravolgente rispetto al movente dell’omicidio Borsellino. Claudio
Martelli, guardasigilli in carica nel ’93, afferma infatti che
sapeva già, qualche settimana dopo la morte di Falcone e prima
della morte di Borsellino, che alcuni alti graduati del Ros erano
in contatto con Vito Ciancimino, vecchio ex sindaco mafioso di
Palermo, referente del capo dei capi Totò Riina, e con lui stessero
trattando per far cessare la carneficina. Una circostanza che dà
respiro all’ipotesi investigativa per cui Borsellino sapeva del patto
e che sia stato ucciso perché vi si opponeva, o comunque perché
la trattativa si stava arenando date le inaccettabili richieste di
Totò Riina. Nella lettera pervenuta a Ruotolo prima della trasmissione
c’è un riferimento a quel periodo: «Il maresciallo Lombardo
– dice Sandro – il carabiniere che si è suicidato in caserma
il 4 marzo del ’95. Nelle lettera ci sono accostamenti precisi
alla quella storia. E sempre a Lombardo faceva riferimento almeno
un’altra lettera indirizzata a Michele arrivata in redazione in
quel periodo. Si sapeva che avremmo fatto una puntata sulla
mafia. Nella lunga missiva scritta al computer si parla anche di
Dino Boffo, il “bolscevico” Dino Boffo, al tempo vittima della
bagarre politico-mediatica».
Lombardo si uccise dieci giorni dopo una puntata di Tempo Reale,
trasmissione di Raitre condotta da Santoro, durante la quale
Leoluca Orlando, allora sindaco di Palermo, dichiarò che «pezzi
dello Stato a Terrasini stanno dalla parte della mafia» e chiese
alla magistratura «di indagare sul comportamento del precedente
responsabile della stazione dei carabinieri di Terrasini», il maresciallo
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Lombardo. Il carabiniere, tre giorni dopo il programma,
sarebbe dovuto partire per gli Usa per prendere in consegna
Tano Badalamenti, vecchio boss di Terrasini a capo della cupola
prima dei Corleonesi. Avrebbe dovuto testimoniare al processo
Andreotti, smontando, si disse allora, il «teorema» Buscetta. Sandro:
«Chi ha scritto la lettera è uno che conosce bene la nostra
storia, non è un ragazzino, un Tartaglia qualsiasi. Anche se credo
che, per la nostra posizione, la mia come quella di Michele o di
Marco, paradossalmente è molto più pericoloso un individuo che
un’organizzazione. Siamo personaggi pubblici, inevitabilmente
sovraesposti, in un periodo molto caldo della storia politica di
questo Paese».
Trentacinque nuove minacce
Non c’è dubbio, certo, che il tessuto sociale dello Stivale da un
po’ di tempo sia attraversato da profondi squarci, da una perdurante
crisi politica, economica e culturale che fa male soprattutto
alle sue dinamiche democratiche. I segni sono tanti, quelli più
gravi riguardano i difficili rapporti fra i poteri istituzionali. Ma
indice importante ne è inevitabilmente anche il mondo dell’informazione,
il tentativo di imbavagliarla, di assoggettarne il ruolo,
la funzione e i destini al volere di pochi, spesso non sempre
puliti, poteri economici e politici. In merito, il dato dei cronisti
minacciati non può essere esaustivo, di certo però è un indicatore
funzionale perlomeno a tracciare lo scenario di scarsa serenità che
vive per forza di cose l’intero Paese. Tanto più che da quando,
meno di un anno fa, «Ossigeno per l’informazione» ha pubblicato
il suo primo rapporto su queste pagine, l’Osservatorio ha potuto
contare 35 nuovi gravi casi di minacce ai giornalisti. Il problema
naturalmente non riguarda solo i colleghi colpiti direttamente. È
chiaro, evidente, che la portata intimidatoria di un’auto bruciata
o di una lettera con sentenza di morte, coinvolge l’intera categoria.
Significa che di alcuni temi in particolare, il più delle volte
storie che riguardano le commistioni tra le consorterie criminali e
la politica o l’impresa, non bisogna parlare. Col risultato, spesso
ottenuto, di opacizzare il dibattito pubblico su quelli che, come
la mafia, rimangono i fondamentali nodi da sciogliere del nostro
Paese.
Fra i 35 casi, oltre a quello di Sandro Ruotolo, altri nomi noti.
Già oggetto di attenzione più e più volte. La minacce nei loro
confronti si fanno sempre più pericolose ed eclatanti. Stiamo
parlando di Rosaria Capacchione e Lirio Abbate. La giornalista
de «Il Mattino» che già vive sotto scorta per le numerose minacce
subite dai Casalesi, lo scorso 11 febbraio, durante la presentazione
di un libro alla libreria Feltrinelli di Napoli, è stata avvicinata
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dal cugino del superlatitante Antonio Iovene che le ha contestato
alcuni articoli scritti un anno prima su un altro congiunto «eccellente»,
Riccardo Iovene, arrestato assieme all’autore della strage
di Castelvolturno, il boss Giuseppe Setola, nel gennaio del 2009.
Oltre alla scorta, in libreria erano presenti decine di persone, carabinieri
graduati e il magistrato Raffaele Cantone.
L’attentato a Lirio Abbate
È passata quasi in sordina, invece, la notizia del progetto di un
attentato alla vita di Lirio Abbate, il giornalista che nel 2007 ha
firmato insieme a Peter Gomez una delle più straordinarie ricostruzioni
dei legami mafia-politica che hanno reso possibile
la lunghissima latitanza di Bernardo Provenzano. Per aver scritto
I Complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone
al Parlamento (Fazi Editore), Abbate è stato minacciato più volte.
Una bomba è stata scoperta sotto la sua auto a Palermo, il 4 settembre
2007. Eppure non ha mai smesso di occuparsi di questi
temi. Anzi, da quando, lo scorso anno, è passato dall’Ansa a
«l’Espresso» ha intensificato il suo lavoro di inchiesta, specializzandosi
proprio nel racconto della criminalità organizzata. Si è
occupato a fondo della «trattativa», ha scritto di ’ndrangheta e
della commistione tra mafia e impresa. Ha spiegato, con l’intervista
a un anonimo imprenditore del Nord, uno dei meccanismi
coi quali la mafia è riuscita a trasformare lo scudo fiscale in
un’immensa operazione di riciclaggio, chiedendo alle imprese assoggettate
di prestare nome e mezzi per far rientrare i capitali
sporchi.
Lo scorso 20 gennaio, prima il quotidiano «il Fatto» e poi l’Ansa
hanno dato notizia del contenuto di una lettera anonima che
svela il progetto di un attentato che aveva per bersaglio lui e il
procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Strettissimo riserbo
della magistratura che sta indagando. Le uniche informazioni
trapelate riguardano Caltanissetta – l’esplosivo per la bomba
sarebbe stato nascosto lì – e Matteo Messina Denaro, il superlatitante
numero uno di Cosa Nostra: il disegno stragista sarebbe
stato ideato nel suo territorio, fra Palermo e Trapani.
Josè Trovato,siciliano
e con lui tanti altri
In Sicilia, dove la strage dei giornalisti si è già consumata, il
clima rimane caldo. C’è un cronista di provincia, in particolare,
la cui storia è per molti versi simile a quella di molti dei giovani
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colleghi uccisi nell’isola. Una vicenda lunga cinque anni, di
paura e minacce, svelata solo qualche mese fa da Josè Trovato,
trentunenne corrispondente da Leonforte (En) del «Giornale di
Sicilia».
Per il quotidiano palermitano aveva sempre seguito il processo al
boss del suo paese imputato per l’omicidio di un giovane delinquente,
che avrebbe operato senza il suo beneplacito, e della sua
fidanzata, «consumato nel bel mezzo della provincia “babba” –
ci dice – considerata tale dal senso comune e invece nei decenni
vera cerniera tra i clan più pericolosi della Sicilia». Mafia agricola,
attaccata sempre e comunque alla mammella dei finanziamenti
pubblici, con una spiccata ossessione al controllo del terri-
torio, al suo parco sviluppo economico condizionato da intimidazioni
e imposizioni commerciali. «Nonostante fosse finito dentro
più volte – racconta – il capo riusciva sempre a uscire di galera,
spesso per i vizi di forma contenuti nelle ordinanze di custodia
cautelare. E così più di una volta me lo sono trovato di fronte a
impormi il silenzio». Il boss è dentro finalmente. Condannato per
quell’omicidio. Josè può stare tranquillo, almeno fino a quando
non lo raggiunge una telefonata dei carabinieri. La rabbia del
boss non si è ancora placata, un informatore appena uscito dal
carcere rivela un piano congegnato dietro le sbarre per fargliela
pagare. Da allora, Josè, vive sotto la tutela delle forze dell’ordine,
anche se non è sotto scorta.
Da Palermo, a Enna, a Catania. Dove vive e lavora il freelance
Antonio Condorelli, anche lui poco più di trent’anni. Catania,
solo Catania. La sua città è l’inesauribile fonte del suo lavoro. Di
fatto uno dei giornalisti più informati in città. I guai sono cominciati
dopo «I Vicerè», la video inchiesta di Sigfredo Ranucci,
andata in onda su Report, alla quale ha collaborato. La trasmissione
ha raccontato senza reticenze alcune delle contraddizioni
più vergognose della città. Dalla bancarotta del Comune, al disagio
da terzo mondo dei quartieri popolari, dalle opere inutili alle
speculazioni milionarie ottenute grazie al regime di emergenza di
cui ha goduto per anni Catania. Dalla festa di Sant’Agata contaminata
dalle influenze dei clan, all’incredibile potere politico-affaristico
concentrato nelle mani dell’editore Mario Ciancio, che
da anni detiene il monopolio dell’informazione catanese e che ha
chiesto 10 milioni di danni a Report. Proprio il suo giornale, «La
Sicilia», si è fatto sponda mediatica della compagine trasversale
di politici e intellettuali cittadini che, dopo la messa in onda
dell’inchiesta, hanno gridato per mesi allo scandalo, per la denigrazione
della «nostra bella Catania». Antonio additato come
l’infame. Si è occupato anche di rifiuti per un giornale di cronaca
provinciale. «Ogni volta che si toccano i rifiuti – ci dice –
qualcuno in provincia di Catania si incazza». Per lui, si sono scomodati
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persino a scolpire il suo nome su una lapide, a fotografarla
e a inviare la foto alla redazione del giornale, mentre viene
spesso raggiunto da telefonate anonime dal tono minaccioso, cui
nessuno degli inquirenti ai quali si è rivolto per sporgere denuncia
sembra volere dare peso.
E nemmeno Siracusa è immune. È successo a Giorgio Italia, giovane
pubblicista in forza a «La Sicilia». Scrive da Buscemi, poco
più di mille abitanti adagiati su un promontorio, circondato da
campagne, a 50 km da Ortigia. In paese, l’unica economia possibile,
oltre al pubblico impiego, è rappresentata dall’agricoltura
e dall’allevamento. La notte tra il 12 e il 13 marzo, ignoti hanno
danneggiato la macchina di Giorgio parcheggiata sotto casa,
dopo che un paio di lettere di minacce, alcuni giorni prima, erano
arrivate al suo indirizzo. Non è difficile risalire al possibile
movente. Perché Giorgio non si è mai occupato di notizie scomode.
Cronaca bianca, spettacoli, piccole recensioni, niente di più.
Solo, ultimamente, ha scritto una serie di articoli sul pascolo
abusivo e su una serie di casi di abigeato. Riflettori flebili su interessi
minimi, ma sufficienti a dare fastidio e a scatenare la rappresaglia
della piccola mafia agraria presente nel territorio. E a
togliere il sonno a un coraggioso cronista da 5 euro al pezzo.
In Campania l’uomo che morde il cane
Continuano a girar male le cose anche in Campania, come abbiamo
visto, anche se nel 2009 va registrata almeno una buona
nuova. Il 10 luglio, il Tribunale di Napoli ha condannato il boss
Salvatore Giuliano a due anni e a un risarcimento di alcune
migliaia di euro per aver minacciato ripetutamente Arnaldo Capezzuto,
che al tempo dei fatti scriveva per «Napolipiù», chiuso
ormai da anni, una delle più vivaci esperienze editoriali campane
di sempre, caratterizzata da una forte autonomia della compagine
giornalistica. Il giornalista si era occupato della morte accidentale
di Annalisa Durante, colpita a sedici anni in un vicolo del quartiere
Forcella, da un proiettile vagante. Durante il processo a carico
di Giuliano, dentro al palazzo di giustizia, a Capezzuto venne
chiesto di smetterla di scrivere il nome del camorrista. Continuò,
scrisse dell’intimidazione e cominciarono a tempestarlo di
lettere minatorie.
Stavolta un mafioso paga per le minacce contro un giornalista. Il
paradosso, «l’uomo che morde il cane», l’ha definita così questa
notizia il direttore di Ossigeno Alberto Spampinato, pur consta-
tando il totale disinteresse per quella condanna da parte degli
organi di stampa.
«Non è servito a niente – commenta amaro Arnaldo – quella sentenza
non ha minimamente scalfito l’arroganza con la quale
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troppo spesso ci si continua a rivolgere a chi cerca solo di raccontare
i fatti. Né, tantomeno è riuscita a creare coscienza del problema
nella categoria». Il racconto di Capezzuto è il ritratto di
un’informazione rassegnata alle pressioni e ai condizionamenti.
«Gli episodi sono molto frequenti, ma nessuno ne fa parola. Se
tutti i giornalisti che subiscono un’intimidazione la denunciassero
ci dovrebbe essere un magistrato apposta per lavorare solo su
questo. Tre settimane fa hanno arrestato un camorrista, e i suoi
parenti davanti alla questura se la prendevano coi giornalisti.
Questo capita quasi sempre. Non molto tempo fa, è scoppiato lo
scandalo delle case popolari. Succedeva che i camorristi cacciassero
dalle case i legittimi assegnatari per gestire le abitazioni
come volevano loro. Nessuno poteva avvicinarsi al quartiere.
Guai a girare lì intorno con una macchina fotografica». «È una
prassi consolidata ormai – continua Capezzuto – quante volte,
durante le conferenze stampa o in occasione di piccoli o grandi
scandali nei quali sono coinvolte personalità cittadine, è capitato
che mettessero la mano sul taccuino per evitare che prendessi
appunti, o che addirittura me lo strappassero di mano e lo gettassero
a terra. Episodi del genere rientrano nel novero delle intimidazioni,
e il brutto è che non occorre essere camorristi per
compierle. Nessuno denuncia – ripete – l’autocensura spesso è
l’unico rimedio adottato».
Napoli è la città dove il 5 dicembre 2008 un giornalista, Andrea
Migliaccio, è stato preso a schiaffi dal comandante dei vigili
urbani dopo essere stato trattenuto contro la sua volontà in
caserma.
«Gran bazar d’illegalità nel rione del comandante». «Il comandante
Luigi Sementa usa il pugno di ferro nel resto della città,
ma vicino alla sua casa le leggi non sono rispettate». Sono il titolo
e l’occhiello del pezzo messo in pagina da «E-Polis/Il Napoli
» lo stesso giorno dell’aggressione subita dal giornalista che lo
ha scritto.
Migliaccio collabora anche con Le Iene di Italia Uno e per loro
realizza alcuni servizi. Uno di questi ha riguardato un sacerdote
che avrebbe molestato alcune fedeli in difficoltà. Per questo, lo
scorso 10 gennaio, mentre era con l’inviato Mediaset nei pressi
della chiesa, è stato aggredito da alcuni «fedelissimi» del prete. Il
parabrezza della sua macchina preso a pietrate.
Un episodio molto simile a quello avvenuto nell’Avellinese lo
scorso 8 novembre, quando Barbara Ciarcia e Francesco Lignite,
giornalista e operatore di una tv locale, sono stati aggrediti da
una trentina di persone inferocite. Volevano raccontare la storia di
uomo che ha ucciso la moglie e poi si è tolto la vita. Questa
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l’incredibile testimonianza di Barbara scritta su un blog che ha
ripreso la notizia: «Purtroppo nessuno di quei trenta, e più, sarà
mai identificato. Non abbiamo voluto sporgere denuncia. Andavano
denunciati i carabinieri e gli agenti della penitenziaria che
stavano lì e non si sono affatto degnati di darci una mano e di
sedare quella folla inferocita e incivile che si è avventata contro
di me e contro l’operatore che tra l’altro non stava riprendendo
nulla. Siamo stati derisi e sbeffeggiati anche dai colleghi. Lavoriamo
e rischiamo la pelle per quattro soldi. È solo per la passione
che continuo a fare questo folle mestiere».
Enzo Palmesano
La camorra, non solo quella che spara, rimane comunque sempre
il più grande ostacolo a un’informazione libera e completa, il
pericolo maggiore per i giornalisti «fuori dal coro». Paradigmatica,
in questo senso, è la storia di Enzo Palmesano. La sua intera
esistenza, quella dei suoi familiari, è infatti stata condizionata
dalle reazioni all’impegno profuso nel raccontare le dinamiche
criminali dell’Agro Caleno, l’area a Nord di Caserta. Il giornalista
ha più volte definito la zona intorno a Pignataro Maggiore, la
sua città, la «Svizzera dei clan» per la concentrazione degli affari
finalizzati al riciclaggio di denaro sporco. In zona, a Sparanise è
stata costruita una centrale termoelettrica che in passato è stata
spesso oggetto delle sue inchieste. Ne scrisse anche Roberto Saviano,
allora, per «il manifesto» dicendo che chi si opponeva alla
sua costruzione rischiava fisicamente. «Quando scrivevo inchieste
su quella centrale – dice Palmesano intervistato da una web tv –
interveniva per metterle a tacere l’attuale sottosegretario all’Economia
Nicola Cosentino, la cui famiglia ha affari nella centrale».
Nicola Cosentino – parente acquisito di Peppe ’o padrino, esponente
del clan dei Casalesi – si ricorderà, è stato raggiunto da
un’ordinanza di custodia cautelare emessa dall’ufficio del Gip del
Tribunale di Napoli su richiesta della Dda, per il reato di concorso
esterno in associazione camorristica, la cui esecuzione è stata
bloccata dalla Camera dei deputati.
Palmesano è stato direttore del «Roma», ed è stato sbattuto fuori
perché si ostinava a farne un giornale di denuncia. Un foglio che
raccontasse senza troppi fronzoli delle connessioni tra le famiglie
del casertano – legate per decenni ai Corleonesi – e imprenditori
e politici dal volto pulito. Da una recente inchiesta della Dda
partenopea emergono chiaramente le pressioni esercitate dal
clan Lubrano, legato ai Casalesi, sul «Corriere di Caserta» per
silurarlo. Lo stesso trattamento per il figlio, licenziato da
un’impresa edile. Così il giornalista in una lettera inviata ad
Articolo 21: «Nel corso dell’inchiesta del dottor Giovanni Conzo
è emerso, inoltre, che il clan Lubrano-Ligato impose – oltre che
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2/ Questi alzano il tiro
la fine della mia collaborazione con il quotidiano locale “Corriere
di Caserta”, qui con convergenti pressioni politiche locali
e nazionali – il licenziamento di mio figlio Massimiliano ad un
imprenditore edile pignatarese». Sempre in quelle carte, nero su
bianco, le trascrizioni delle intercettazioni ambientali riferiscono
chiaramente dell’odio rabbioso nei confronti di due giornalisti
«che scassavano ’o cazzo», espresso dal capoclan Vincenzo Lubrano,
già mandante, insieme ai Nuvoletta, dell’omicidio di Giancarlo
Siani. I due cronisti in questione: lo stesso Siani e Enzo
Palmesano.
Il 24 febbraio 2009, durante la conferenza stampa tenuta dai
magistrati antimafia in occasione di quella operazione, la stessa
che ha portato all’arresto di 15 esponenti del clan Lubrano-
Ligato, il free-lance Palmesano è stato ringraziato pubblicamente
per l’aiuto fondamentale che le sue inchieste giornalistiche hanno
dato agli inquirenti durante le indagini. Quella stessa notte, il
giornalista e i suoi familiari riescono a mettere in fuga chi aveva
già cosparso la loro auto di benzina per darvi fuoco.
Così Palmesano ai microfoni di «Libera Informazione», mentre
spiega che non è l’unico, nella «Svizzera dei clan» a essere oggetto
di attenzioni camorristiche: «Gli attacchi ai giornalisti non si
risparmiano in queste terre. Sono almeno tre i cronisti pignataresi,
escluso il sottoscritto, che hanno subito minacce e condizionamenti.
Sono Carlo Pascarella, Davide De Stavola e Salvatore
Minieri. Il 31 dicembre 2007 nell’ambito di una vasta opera di
minacce esplosero quasi contemporaneamente due bombe carta.
Una presso il panificio della fidanzata di un carabiniere e la seconda
presso il negozio della sorella di Carlo Pascarella. Subito si
parlò di racket, ma era evidente l’intimidazione per altri motivi.
Per mettere paura a Pascarella soprattutto. Io già ero stato allontanato
e il giovane Davide De Stavola aveva già ritrovato per
due volte dei pesci sulla sua vettura. Rimaneva da sedare solo la
voglia di informare di Salvatore Minieri, l’unico ancora in pista,
con De Stavola costretto a scrivere poco e nulla presso la sua testata.
Nel gennaio del 2008 un attentato notturno cercava di
completare l’opera di intimidazione. Alcuni colpi diretti verso la
finestra di casa Minieri si fermarono sulla cancellata. Salvatore,
cacciato dal suo quotidiano, ora è addirittura emigrato in Molise
dove collabora con una realtà della provincia di Isernia. Quattro
casi inspiegabili se non all’interno di una strategia mafiosa».
All’epoca delle intimidazioni i tre giornalisti si erano occupati
della «Villa del Conte», un immobile sequestrato al boss Raffaele
Ligato. Gli articoli denunciavano lo stato di abbandono del caseggiato
bunker che, come dimostravano le cronache, di fatto era
ancora nella totale disponibilità della famiglia Ligato. «Quando
io e Carlo andammo di persona per documentare le condizioni
del bunker – ci dice Davide De Stavola – vi trovammo Pietro
Ligato, figlio del boss arrestato, a colloquio con l’imprenditore
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2/ Questi alzano il tiro
Tommaso Verazzo, responsabile di Bio Power, la società che
avrebbe dovuto costruire una centrale di biomassa proprio nei
pressi della villa con i finanziamenti della Regione Campania».
Carlo Pascarella e Davide De Stavola scrivevano all’epoca per il
«Giornale di Caserta», Minieri era invece alla «Gazzetta di Caserta
». «Il nostro lavoro – continua Davide – ci ha creato forti
inimicizie, soprattutto nella classe politica locale. Col tempo, io
ed Enzo Palmesano, che collaborava come me alle pagine sull’Agro
Caleno del “Giornale di Caserta”, siamo stati messi alla
porta. Carlo, che era un redattore, si è dovuto “allineare”». Dal
gennaio del 2008, il giornale si chiama «Buongiorno Caserta».
«Una ristrutturazione – spiega Davide – che ha finito per tagliare
tutte le collaborazioni, le pagine territoriali non esistono più. Di
fatto, un giornale realizzato interamente in redazione. Riguardo a
Salvatore Minieri, per un periodo non lo hanno fatto più scrivere,
alla fine ha preso la decisione di andarsene a Tele Molise». «La
stampa è completamente dipendente dall’arroganza e dalla tracotanza
della politica – chiude Davide – una circostanza che non è
un’esclusiva delle nostre terre, peccato però che qui c’è la mafia,
con tutto ciò che questo comporta in termini di influenza sulla
classe politica e quindi sull’editoria».
Su quattro editori presenti nel Casertano, due negli ultimi anni
sono stati arrestati. Maurizio Clemente editore del «Corriere di
Caserta», rinviato a giudizio nel 2003 per estorsione a mezzo
stampa al fine di ottenere contratti pubblicitari. Pasquale Piccirillo,
a capo della società che edita «Buongiorno Caserta» e «Tv
Luna», lo scorso gennaio in manette, invece, per truffa ai danni
del ministero dello Sviluppo economico. Secondo i magistrati
della Procura di Santa Maria Capua Vetere avrebbe emesso fatture
false per ottenere un finanziamento di 782 mila euro.
E in Puglia saltano
in aria le auto
Sicilia e Campania. Regioni abituate alla presenza invasiva delle
consorterie criminali. Come la Puglia, dove la presenza della
Sacra Corona Unita non ha mai smesso di farsi sentire nel quasi
totale disinteresse della grande stampa nazionale. Il caldo ottobre
dei giornalisti pugliesi comincia il 14 ottobre del 2009, quando
nel foggiano salta in aria la macchina di Angelo Ciavarella, mite
professore di Scienze a San Severo con la passione del giornalismo,
corrispondente per la «Gazzetta del Mezzogiorno». Scrive di
politica, la giudiziaria la fanno in redazione a Foggia, ma se riguarda
San Severo, i pezzi vanno nelle pagine provinciali senza
firma, proprio vicino a quelli di bianca con in calce il suo nome.
Per questo, dice, che forse hanno colpito lui perché gli avevano
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attribuito righe che non aveva mai scritto. Capita anche questo.
Per lo meno questa è la sua lettura. Gli inquirenti si trincerano
dietro il silenzio delle indagini in corso.
Dopo tre settimane, il 5 novembre, è la macchina di Gianni Lannes
a saltare in aria. Per la seconda volta. La prima gli era stata
bruciata il 2 luglio. Solo due settimane dopo furono sabotati i
freni dell’altra auto. È il direttore di un giornale online, Terra
Nostra. Autore di inchieste sui temi del malaffare, traffico di esseri
umani, armi e rifiuti. Scrive soprattutto di ambiente, alcune
inchieste su presunti sversamenti di scorie radioattive in mare
sono molto seguite dalla blogosfera. Leoluca Orlando ha fatto
un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno per chiederne
la protezione. «Le indagini sugli attentati non sono mai
partite», ha dichiarato a «il Fatto Quotidiano» dopo che, per
protesta, aveva «congelato le pubblicazioni», scrivendo sul sito
italiaterranostra.it: «Siamo liberi, indipendenti e incondizionabili,
ma il direttore non mette a repentaglio la vita e l’incolumità dei
suoi collaboratori». La scorta a Gianni Lannes è arrivata solo il
22 dicembre del 2009.
In Abruzzo
Nell’Abruzzo del terremoto e degli scandali sulla sanità è Daniela
Senepa, giornalista Rai, a ricevere una minaccia di morte. La
trova sul suo computer all’alba, la mattina del 14 gennaio 2010.
È una cartolina con i luoghi più affascinanti della sua Regione.
Dietro, un messaggio decisamente meno seducente. «L’ho presa
in mano tranquilla. Mi capita spesso di ricevere attestati di stima
dai telespettatori – racconta la cronista – invece ho trovato dei
riferimenti a “Sanitopoli”, uno dei grandi processi che si aprirà a
Pescara nei prossimi mesi. In particolare si menzionava uno dei
personaggi coinvolti nell’inchiesta. Io me la sarei presa con questo
“poveretto”, per il quale la Procura della Repubblica ha chiesto
il rinvio a giudizio insieme ad altri 31 indagati. E siccome
c’era già stato un battage mass mediatico che lo aveva assolto, io
dovevo fare una brutta fine. Oltre al danno la beffa: i magistrati
mandano in aula un presunto ladro, io scrivo quello che fa la
magistratura e ho da schiattà?!».
Daniela Senepa si occupa da anni di cronaca nera e giudiziaria
per la sede regionale Rai. Ha documentato giorno per giorno il
sisma che il 6 aprile ha devastato la sua terra, ed è in prima linea
anche sull’altro terremoto che ha scosso la regione: le presunte
tangenti nel sistema della sanità abruzzese. Un malaffare che
nel 2008 portò all’arresto dell’allora governatore Ottaviano del
Turco, di alcuni assessori regionali e di alcuni imprenditori. «Non
è criminalità organizzata. È criminalità politica – dice con rabbia
– sono sicurissima, e non lo sono solo io, che questa è una minaccia
O2 ossigeno per l’informazione.Rapporto 2010
osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza
2/ Questi alzano il tiro
che viene da un entourage ben preciso, che si è sempre sentito
fortificato da una malainformazione, da chi ha preso un paio di
dossier e li ha manipolati alla bisogna dicendo che contenevano
le prove dell’innocenza di questa persona», il «poveretto» cui fa
riferimento la cartolina di minacce.
«La Procura di Pescara – continua Daniela – ha disposto controlli.
Le volanti passano vicino casa mia e a quella dei miei genitori.
È una follia dover essere guardati a vista dalla polizia, innanzitutto
perché togli alla città una parte del servizio di sicurezza e
poi perché non sono io il criminale. Mi sento limitata nelle libertà,
per che cosa? Per aver letto le carte della magistratura, per
aver fatto dei ragionamenti diversi rispetto a un potere politico
bipartisan che decide chi è colpevole e chi è innocente? Io lo trovo
allucinante, culturalmente allucinante».
Daniela ha chiesto esplicitamente alla direzione di continuare a
seguire «Sanitopoli» «sarebbe stata una vittoria di questi idioti»,
spiega. «La solidarietà maggiore l’ho ricevuta dalla gente. Dal
basso partono e arrivano le istanze di civiltà. Il mio vero scudo
sono le persone. La solidarietà dei colleghi è arrivata, ma anche
l’invidia perché c’è anche chi è così cretino da pensare che una
cosa del genere ti catapulti in una forma di Olimpo. Solo un
idiota può pensare una cosa del genere ma vi assicuro che gli
idioti esistono».
Nello Rega
Di lettere minatorie Nello Rega, 43 anni, altro giornalista Rai,
ne ha ricevute parecchie negli ultimi mesi. Un’escalation preoccupante
culminata con l’invio di alcuni proiettili calibro 22, accompagnati
da una sentenza di morte in nome di Allah. Le minacce
l’hanno raggiunto in redazione a Roma, dove lavora agli
esteri del Televideo Rai, ma anche a Potenza, dove vive ancora la
sua famiglia. Minacce pesanti, fatte scivolare sotto la porta, o sistemate
sul parabrezza dell’auto. «La cosa molto grave è che
sono sicuro di essere seguito – spiega Rega – alcune intimidazioni
sono state messe sulla mia macchina mentre ero da amici a cena.
A indicare che non sono solo le mie abitazioni presidiate, ma
anche i miei spostamenti».
Nel mirino di sedicenti estremisti sciiti libanesi per aver pubblicato
un libro scomodo. Per aver raccontato la sua esperienza in
Medio Oriente, i suoi contatti con la cultura islamica e la sua
convivenza con una ragazza sciita. Diversi e Divisi è il suo vissuto,
è la storia di «un amore che si consuma tra un uomo e una
donna diversi. Distanti nel modo di comunicare, di baciare, di
fare l’amore», come cita la quarta di copertina.
O2 ossigeno per l’informazione.Rapporto 2010
osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza
2/ Questi alzano il tiro
L’offensiva è scattata ancora prima che il racconto arrivasse in
libreria. È bastato che sul web e sui blog si spargesse la notizia
dell’intenzione di scriverlo. Sono partite le minacce. I primi bossoli
alla fine di settembre, nel parcheggio di Saxa Rubra. Poi il
pressing minatorio senza sosta. Teste d’agnello mozzate in macchina,
frasi esplicite spedite all’indirizzo della madre. «Morirai in
nome di Allah con la mano di Hezbollah perché vai in televisione
e dici bugie». E poi i proiettili.
«Ora ho paura. Vorrei andare avanti, non farmi imbavagliare, ma
sono isolato dalle istituzioni e non ho riferimenti – afferma Rega
– tutto ciò mi sembra folle. Quando vado a Potenza, dove vive
mia madre, c’è un sistema di protezione. Se mi muovo da lì sono
nelle mani di Dio». Continua a gridarla la sua paura, Nello.
Continua a non sentirsi sicuro: «Mi proteggono a metà. Così è
inutile. È anche uno spreco di soldi pubblici». Certo, non pare di
vivere in un Paese normale se un senatore della Repubblica, Felice
Belisario dell’Idv, per chiedere al ministro dell’Interno maggiore
protezione per Rega, debba spingersi a dire: «Se Rega fosse risultato
un mitomane o uno squilibrato sarebbe indagato. Invece non lo è.
Da tre mesi sollecito Maroni a intervenire. Lettere, interrogazioni
parlamentari, richieste di incontro. Nessuna risposta. Un silenzio
deplorevole». Belisario, la Fnsi, «Ossigeno per l’informazione»,
tante le richieste. Ma dal Palazzo ancora non si riesce ad avere
una giusta misura di protezione per un uomo in pericolo di vita.
Profondo Nord-Est
«Ti sono pervenute le pallottole?» La telefonata arriva in diretta
tv alle 8.40 del mattino. Fabio Fioravanzi giornalista di Antenna
Tre Nordest è in onda con il suo programma quotidiano. La voce
è chiara, quanto la minaccia. E non è la prima volta. Già nel
2007 Fioravanzi era stato oggetto di un’intimidazione. Una busta
con frasi pesanti contro di lui, contro alcuni magistrati, politici e
industriali veneti, firmata da «Prima organizzazione terroristica
triestina». E della polvere. Sembrava antrace. Si rivelò innocua.
Per quell’episodio il Tribunale di Treviso ha condannato a 25
mesi di carcere un pregiudicato di Trieste. Poi la telefonata anonima,
durante il programma. Fioravanzi ha uno scatto d’ira. Ma
tiene la diretta. Parte la denuncia alla polizia.
Profondo nord. Nord-est. «Dove appare che la criminalità organizzata
non eserciti alcuna influenza, non entri in nessun affare –
ci dice al telefono Fabio Folisi – e dove, invece, proprio questa
apparente tranquillità finisce per fornire le migliori condizioni
per riciclare denaro. Soprattutto perché siamo vicino al confine
con la Slovenia, dove ci sono dei casinò che pare abbastanza certo
O2 ossigeno per l’informazione.Rapporto 2010
osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza
2/ Questi alzano il tiro
siano infiltrati dai capitali delle famiglie di Cosa Nostra catanese
». Fabio ha 51 anni, una moglie e un figlio. Coordinatore
della redazione di «E-polis/Il Friuli» e direttore del giornale online
Friulinews. L’11 febbraio scorso, uscito dalla redazione per un
servizio, intorno alle cinque del pomeriggio, ha trovato infilata
nel battente della portiera della macchina una lettera contenente
un messaggio «sgrammaticato» – «“Impiciati” degli affari tuoi» –
e un proiettile. «L’auto – racconta Fabio – non era la mia. Da
qualche giorno giravo con quella perché la mia era fuori uso.
Proprio questo ha fatto preoccupare gli inquirenti. In effetti,
qualcuno mi ha seguito. Nessuno, a parte i colleghi e la mia famiglia,
sapeva che in quei giorni usavo quella macchina».
Non è la prima volta che Fabio riceve messaggi minatori. «Già
due anni fa – dice – mi era arrivata una lettera. In quel periodo
mi ero occupato della progettazione del rifacimento dell’impianto
di teleriscaldamento dell’ospedale di Udine». Niente di strano
che anche in quest’occasione le minacce siano arrivate per una
delle quattro o cinque storie di appalti e lavori pubblici che sta
seguendo in questo periodo. «La torta c’è – spiega – e c’è anche
il ragionevole dubbio che alcuni politici, riconducibili a entrambi
gli schieramenti, possano specularci, diciamo a titolo personale.
Ho scritto dei lavori per la terza corsia della A4, un affare da 2,3
miliardi di euro, e di un depuratore per cui è stato rinviato a giudizio
tutto il Cda della ditta che avrebbe dovuto progettarlo. Con
questo, però – ci tiene a precisare – non voglio dire che le minacce
siano arrivate per questi affari in particolare». L’ombra della mafia?
«La mafia, certo, non posso escluderlo – conclude – ma è più
probabile che sia semplice malaffare di tipo politico-economico».
Anche a Genova
Vite sotto tiro. Al Sud o al Nord non fa differenza. In Veneto, in
Friuli, in Lombardia, in Liguria. Firme conosciute, nomi legati a
inchieste scomode, ad articoli che danno fastidio. Marco Menduni
ha 48 anni. È un cronista de «Il Secolo XIX», redazione centrale
a Genova. L’ultimo suo scoop è di pochi giorni fa, lo scandalo
delle firme false per la presentazione delle liste alle Regionali. Le
indagini della magistratura sono partite proprio dalla sua denuncia
sulle pagine del quotidiano. Un giornalista esperto, impegnato
da anni in delicate inchieste. Criminalità organizzata, sperperi
di denaro pubblico, favoritismi nell’ambito della sanità, negli
ambienti della politica.
«È successo il primo giorno di quest’anno. Sotto casa mi è andata
a fuoco la macchina, bruciata durante la notte. Una vettura
riconoscibile, quindi non hanno neanche dovuto cercarla molto.
Una Smart Roadster, ce ne sono pochi modelli in giro. Sanno
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osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza
2/ Questi alzano il tiro
tutti che è la mia. Sono arrivati i vigili del fuoco e la Digos perché
sapevano già che ero stato minacciato in precedenza. Ho toccato
molti interessi, non è facilissimo individuare la matrice di questa
vicenda. Sono nel mirino di molti». Anche gli inquirenti rispondono
picche, non sanno o non possono dare una spiegazione.
L’auto saltata in aria è solo l’epilogo inquietante di una serie di
avvertimenti. «Nel 2005 c’era stata una specie di invasione notturna
nella portineria del giornale, l’avevano riempita di spazzatura
e poi avevano tracciato una scritta “Menduni boia”. Poi
c’erano stati altri episodi meno significativi, volantini con frasi
analoghe affissi in centro e su un cartellone pubblicitario de “Il
Secolo XIX”».
Nulla a che vedere con la mafia? «Non voglio fare accostamenti.
Però vi posso testimoniare che la criminalità organizzata esiste
anche qui. Ci sono anche qui famiglie mafiose, confische di beni,
episodi di questo tipo. Sicuramente sono uno sulla piazza che si
espone maggiormente. Dipende da come fai questo mestiere, se lo
vuoi fare bene, non è così facile. È difficile ovunque. Ma Genova
è una città molto chiusa, non voglio dire omertosa, di sicuro un
posto dove le élites del potere sono molto riservate. Un città difficilissima
da esplorare a fondo».
Giulio Cavalli
Per molti non è la prima volta. Come non lo è per Giulio Cavalli,
classe 1977. Non è un giornalista Giulio, ma un attore, un regista
d’inchiesta, che scrive i suoi spettacoli di denuncia lavorando
assieme a cronisti e magistrati. Da anni vive sotto scorta, una
vita abitata a metà. Rischia perché nel 2006 ha portato in scena
Do ut des, una pièce irriverente verso i capi mafia. Rischia perché
le minacce di morte non lo fanno tacere e da qualche settimana
rischia ancora di più perché, con quella storia, si è candidato alle
regionali. A Varese. Non in Calabria, non in Sicilia, o in Campania.
Ma in Lombardia. Dove le intimidazioni più gravi per lui
non sono le telefonate anonime o i gesti minatori, ma la colpevole
indifferenza per la questione mafiosa di una vasta parte della
società e della classe dirigente che amministra. Perché la mafia a
Milano non c’è. Ché la Lombardia non è affetta da questo cancro.
Lo ha detto perfino il prefetto Gian Valerio Lombardi nei
mesi scorsi. Dicevano lo stesso a Ragusa quando fu ucciso Giovanni
Spampinato. Dicevano lo stesso a Barcellona, in provincia di
Messina, quando fu assassinato Beppe Alfano, e a Catania quando
cinque colpi di pistola raggiunsero la nuca di Pippo Fava.
«Avevamo ricevuto nei giorni scorsi – si legge in un comunicato a
firma Giulio Cavalli – delle minacce nella sede cittadina del partito,
una telefonata minatoria, e successivamente un proiettile lasciato
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2/ Questi alzano il tiro
davanti alla porta della sede di Via Lepontina. Minacce regolarmente
denunciate, ma che non avevamo messo in relazione
tra loro. Oggi ci ritroviamo per l’ennesima volta a dover subire fatti
ed intimidazioni, che appaiano in modo preoccupante sempre più
collegate all’impegno politico che abbiamo deciso di intraprendere».
I «nuovi fatti» appaiono sotto la forma di un volantino lasciato
sulle auto parcheggiate vicino all’agenzia dell’Intesa San Paolo di
Viale Monza, a Milano. «La mafia controlla la filiale Intesa San
Paolo di Via Palmanova», proprio la stessa in cui il comitato che
lo sostiene aveva aperto un conto corrente per il candidato Cavalli.
Difficile pensare a coincidenze. E poi, ancora proiettili. Ventitré
in tutto, davanti al teatro Oscar, poche ore prima dell’apertura
del sipario. Spettacolo sospeso. È lui stesso dal palco a spiegare
al pubblico i motivi dell’annullamento, a dire ancora una
volta, non lasciatemi solo.
La mafia in Lombardia non c’è
«La mafia in Lombardia non c’è». Non c’è quando in Brianza,
nel 2008, in pochi mesi, fanno fuori tre persone legate al mondo
dell’edilizia. Omicidi riconducibili ad un regolamento di conti di
un locale di ’ndrangheta. Non c’è quando il comune di Buccinasco
viene commissariato per infiltrazioni mafiose. Non c’è quando
vengono arrestati superlatitanti. Non c’è quando è ormai certo
che le cosche sono fortemente interessate ai miliardari appalti di
Expo 2015. Non c’è sulle cronache locali. «Non c’è – dice Gianni
Barbacetto, giornalista e direttore dell’osservatorio sulla criminalità
organizzata al Nord – perché sulla pagine locali, anche in
quelle dei quotidiani più blasonati, si parla del singolo omicidio,
o del fatto di cronaca a sfondo mafioso, ma mai ho letto un pezzo
che leghi fra loro i fatti. Che dia la misura generale delle pericolose
infiltrazioni mafiose». «C’è un problema di informazione»
– ci dicono i redattori di «Narcomafie», che producono a Torino il
mensile di Libera – «sembra che i giornalisti locali non siano
ancora attrezzati al racconto della mafia, all’interpretazione del
suo approdo ormai trentennale al Nord».
Qualcuno ci prova in effetti. E ne paga le conseguenze. Davide
Bortone collaborava con «Il Giorno». Scriveva da Buccinasco,
Gaggiano e Cusago. Dirigeva un giornale on line, Giornalelibero.
com, sul quale raccontava in maniera approfondita storie
di criminalità organizzata, infiltrazioni nel palazzo comunale.
Spesso si è occupato della famiglia calabrese Barbaro-Papalia,
titolare del locale di ’ndrangheta attivo nella zona intorno ad Assago,
Buccinasco, Cesano Boscone, Corsico e Trezzano sul Naviglio.
Il 18 giugno del 2009 ha trovato il lunotto della macchina in
frantumi. Lui stesso sul suo sito ipotizza un movente mafioso, e
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già il giorno dopo scrive di alcuni sversamenti di rifiuti tossici nei
terreni a sud di Milano. Davide in passato si era preso pure un
bel pugno in faccia, mentre si occupava di campi nomadi. Nemmeno
quello lo ha fatto desistere. E però ha smesso comunque.
Ha cambiato lavoro, non fa più il giornalista. Lo annuncia lui
stesso, lo scorso 31 gennaio, sulla home page del suo sito: «Gentili
lettori, con grande rammarico vi comunico che GiornaleLibero.com
chiude per la mancanza di proposte economiche concrete per il
suo definitivo rilancio, da parte dei possibili sponsor. Grazie a
tutti per la vicinanza e l’attaccamento dimostrato in quest’ultimo
periodo, che oserei definire “travagliato”». Nessuno a sud di
Milano è disposto a finanziare un giornale antimafia.
Sempre Milano, sempre periferia Sud. Massimiliano Saggese, corrispondente
del «Giorno», era assieme alla fotografa Mara Del
Fante, quando il 10 maggio del 2008, è stato aggredito per le
strade di Pieve Emanuele, da 15 persone. Pugni in faccia a entrambi,
calci nella macchina, dieci giorni di prognosi. Avevano
scritto di un incidente stradale, nel quale aveva avuto la peggio
una bimba di 17 mesi. Mentre era in macchina con la sua famiglia,
ha aperto la portiera, ed è caduta sull’asfalto. La madre
indagata per omicidio colposo perché nell’auto non c’era il seggiolino.
«Scrissi della storia – ci spiega Massimiliano – e il giorno
dopo tornai a Pieve con Mara, per coprire gli sviluppi della vicenda.
Ci riconobbero e ci aggredirono. Tra loro anche un benzinaio
pregiudicato, pluricondannato, del quale mi ero già occupato».
«Erano camorristi – continua Massimiliano – legati al clan Pesce
di Pianura. Non quelli di Rosarno – precisa – questi sono quelli
che gestiscono il racket a Pianura». Pieve Emanuele, Buccinasco,
Trezzano, Corsico, Rozzano. «Sono posti – continua il giornalista
– dove la criminalità organizzata si respira camminando per strada.
Hanno locali, gelaterie, bar, ristoranti, tutti nelle loro mani.
A Rozzano, su 40 mila abitanti 8 mila sono pregiudicati. Quando
hanno fatto i funerali della bambina morta a Pieve, hanno
vietato agli edicolanti di mettere fuori i giornali con gli articoli
che riguardavano l’incidente e la nostra aggressione».
Le botte le ha prese anche Saba Viscardi, giornalista di Merateonline.
Un altro incidente stradale. 10 giugno 2009, Imbersago,
provincia di Lecco. Lei che si arrampica su un balconcino per
fare le foto. E il figlio del ferito che la insegue, e la raggiunge, per
prenderla a schiaffi. Messa in salvo dall’intervento dei vigili del
fuoco, è la moglie del moribondo a farle scivolare la borsetta in
pieno volto.
«Guardie o ladri». Si chiama così il blog di Roberto Galullo, 46
anni, inviato de «Il Sole 24 Ore», conduttore a Radio24. Lavora
O2 ossigeno per l’informazione.Rapporto 2010
osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza
2/ Questi alzano il tiro
a Milano. Scrive di mafia, politica, malaffare e connivenze. Fa i
nomi, pubblica ordinanze, sentenze, relazioni. E arrivano le rappresaglie.
L’ultima poche settimane fa. La lettera di un avvocato,
il legale di una famiglia di mafia siciliana radicata in Lombardia,
segnalata nel rapporto di un magistrato milanese alla Commissione
parlamentare antimafia che Galullo ha pubblicato in
esclusiva sul suo blog. Non scrivere più del mio assistito. Il messaggio
suonava più o meno così. La stessa minaccia, neppure
tanto velata, recapitata da un altro avvocato di una delle cosche
più influenti di Gioia Tauro dopo un articolo sulle infiltrazioni
della ’Ndrangheta nella vita politica della regione. Con un avvertimento
in più. Il tuo blog è sotto controllo. Vediamo ogni giorno
quello che scrivi. Regolati. «La mia linea è sempre stata quella
della riservatezza – spiega Galullo – ci sono fascicoli aperti, quindi
non posso dirvi altro. Io continuo a scrivere. Le minacce non
mi preoccupano più di tanto. Sono molto più pericolose quando
arrivano ai colleghi della stampa calabrese».
Giornalisti sotto attacco in Calabria
«Giornalisti sotto attacco», l’apertura del «Quotidiano della Calabria
», il 23 febbraio scorso, ha il sapore insolito di una «vuciata
», di un grido affannoso, quasi scomposto. Accade raramente.
La sobrietà, la compostezza del racconto delle notizie calabresi è
infatti uno dei tratti distintivi del giornale diretto da Matteo Cosenza.
L’accento così marcato, il titolo straziato sulla prima pagina,
si spiega solo con lo straordinario pressing minatorio che hanno
subito i giornalisti in Calabria nei primi mesi del 2010: cinque
colleghi minacciati di morte nel giro di venti giorni, sei in
due mesi, otto dalla scorsa estate. Sappiamo che a questi vanno
aggiunti i casi di chi non denuncia, o di chi ha voce così flebile
da non arrivare nemmeno sulle colonne dei giornali locali. Otto
casi solo in Calabria da quando su queste stesse pagine, nel primo
rapporto di Ossigeno, si dava conto di altre otto storie registrate
nel triennio 2006-2008.
Sono numeri inquietanti, tanto più che per ognuno di questi casi
gli inquirenti hanno espresso seria preoccupazione. Numeri che
confermano la straordinaria pericolosità del mestiere della scrittura
in Calabria. Di quelli che da soli raccontano di una regione in
cui le dinamiche democratiche sono infinitamente più vischiose
che nel resto del Paese: «Chi comanda davvero in Calabria» –
scrive il direttore del «Quotidiano» nel suo editoriale – «decide
chi, come, dove e quando può fare il proprio dovere e purtroppo
ci riesce spesso». Gli otto episodi intimidatori registrati negli ultimi
mesi, infine, in relazione agli otto dei tre anni precedenti,
segnalano chiaramente come il trend delle minacce abbia assunto
O2 ossigeno per l’informazione.Rapporto 2010
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2/ Questi alzano il tiro
un’inclinazione vertiginosa, esponenziale.
Non si spiega, poi, l’incredibile ostinazione da parte dell’informazione
nazionale nel mantenere al buio questa terra (e questo
tema). Solo «la Repubblica», e solo quello stesso 23 febbraio, ha
speso un taglio basso a pagina ventuno per raccontare l’intimidazione
subita dal suo corrispondente calabrese, Giuseppe Baldessarro,
prolifica firma del «Quotidiano», solo l’ultimo dei cronisti
«infami» nel mirino delle ’ndrine.
La lettera è arrivata nell’ufficio di corrispondenza di Reggio Calabria
il 22 febbraio, il timbro portava la data del giorno 20. Il
suo nome e l’indirizzo vergati a mano con un segno elementare,
chiaramente distorto. Nella busta, oltre a tre pallottole, la scritta
«Andare oltre significa la morte», ricavata dal ritaglio di alcuni
titoli del giornale. «È difficile – dice Giuseppe – capire quale sia
stata la notizia che ha scatenato la reazione della criminalità».
Giuseppe Baldessarro è un cronista di giudiziaria, di fatto però,
come spesso accade per i corrispondenti, sia per «Il Quotidiano»
che per «la Repubblica», si è occupato anche di altro. «Nell’ultimo
mese – dice – ho coperto i diversi processi, tutti particolarmente
importanti, fra i quali quello che ha fatto luce sulla strage
di Duisburg e la faida di San Luca. Ho scritto della bomba
esplosa davanti alla procura reggina il 3 gennaio, dell’auto arsenale
fatta ritrovare il giorno della visita del Presidente della Repubblica,
della rivolta di Rosarno».
È probabile tuttavia, ci dice e ci conferma il direttore del «Quotidiano
», che la minaccia abbia riguardato un suo articolo uscito
il 19 gennaio sulle strategie elettorali del clan di Pietrastorta in
vista delle elezioni regionali del 2005. In pagina anche le intercettazioni
ambientali di alcune conversazioni intercorse tra un
esponente della cosca reggina e un consigliere regionale. Una storia
che solo lui ha messo in luce.
Con la stessa tecnica, ritagliando il titolo di un suo articolo, è
stato composto il messaggio di morte contro Filippo Cutrupi,
corrispondente da Reggio Calabria per «La Stampa», «il Giornale
» e il «QN». La lettera è arrivata a casa della sorella, nella città
dello stretto, il 15 febbraio scorso. Sul foglio, oltre a una croce
sulla sua firma, la scritta «Non scrivere più “La ’ndrangheta attacca
lo Stato”», titolo del pezzo apparso sul «il Giornale» il 4
gennaio scorso. La cronaca puntuale della bomba lanciata contro
il portone della Procura Generale, un attentato dal forte valore
simbolico, come gli stessi inquirenti hanno più volte dichiarato in
quei giorni. Si colpisce l’efficienza della magistratura reggina sotto
la guida del procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone
e del procuratore generale Salvatore Di Landro, a capo dell’ufficio
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che si occupa della confisca e del sequestro dei beni e dei procedimenti
di appello contro le cosche. Il secondo grado dove
spesso, in passato, le sentenze venivano perlomeno alleggerite se
non ribaltate del tutto. L’interpretazione è chiara e condivisa
dalla maggior parte dei giornali. In quei giorni, infatti, le cronache
si assomigliano tutte. Non c’è una notizia esclusiva, non c’è
la particolare esposizione di alcun cronista. Ecco perché lo stesso
Cutrupi si dice sorpreso che nella lettera di minaccia si facesse
riferimento alla bomba di Reggio: «Non lo so – dice. Certo, qualcosa
è cambiato, e in peggio. Quando venne ucciso Franco Fortugno,
fui l’unico a scrivere, già il giorno dopo, chi avrebbe potuto
essere il mandante politico di quell’omicidio. Una circostanza che
sicuramente avrebbe potuto espormi molto di più rispetto alle cronache
della bomba di Reggio, eppure allora non accadde niente».
Di certo, Filippo Cutrupi, come Giuseppe Baldessarro sono calabresi,
vivono in quei territori, sono sentinelle sempre attive; per
questo il loro lavoro, rispetto a quello degli inviati, è più incisivo
e meno «apprezzato» dai clan. Sono «Infami», «sbirri», «traditori
», nella logica dei mafiosi calabresi.
Infame, sì, o nella dizione calabrese, «’mpamu». È Michele Albanese,
a capo della redazione di Polistena del «Quotidiano» a spiegarci
bene il significato di questa parola. «Fino a poco tempo fa
– spiega – i mafiosi erano abituati a una stampa che narrava le
loro gesta. Il racconto, spesso carico di folclore, finiva per non
creare nessun tipo di problema alle ’ndrine. Piuttosto, anche inconsapevolmente,
contribuiva a costruire la fama dei capobastone,
la loro autorità sul territorio. Le cose oggi sono molto cambiate.
La magistratura è cambiata e anche l’informazione fa la
sua parte. Per quel che mi riguarda ho sempre pensato a questo
mestiere come a un mezzo di emancipazione della mia gente. La
‘ndrangheta li vuole schiavi i calabresi, il giornalismo deve fare in
modo che siano cittadini bene informati, consapevoli dei loro
diritti. Questo nella logica mafiosa è lavoro di infami, di traditori
». La parola «Infame», in Calabria, è usata anche per i pentiti.
Implica un cambiamento di rotta, un passaggio di barricata.
L’ultima minaccia, Michele Albanese l’ha ricevuta a mezzo posta
lo scorso 28 gennaio. La lettera è arrivata nella redazione centrale,
a Castrovillari: basta parlare di Rosarno e una croce a morto
sul suo nome. Non è la prima. Michele e la sua famiglia sono
oggetto di tutela da parte delle forze dell’ordine. Il procuratore di
Palmi, capo dell’ufficio competente del territorio della Piana, il
giorno dopo l’ennesima intimidazione ha trasferito il fascicolo alla
Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. «Le minacce
dirette sono solo la punta dell’iceberg. Noi qui ogni giorno –
chiosa Michele – scriviamo di criminali che non è difficile incontrare
al bar, o che magari, ti ritrovi nel consiglio di classe della
scuola dei tuoi figli. L’intera nostra esistenza è condizionata dal
O2 ossigeno per l’informazione.Rapporto 2010
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2/ Questi alzano il tiro
pericolo che comporta fare il giornalista da queste parti».
Capita così, in Calabria, che a fare la nuda cronaca dei processi,
o a riportare la notizia di operazioni giudiziarie, scavando a fondo
nelle ordinanze, si finisca nel mirino. Per due volte nel giro di
un mese e mezzo. È accaduto a Michele Inserra, salernitano approdato
alla redazione di Siderno del «Quotidiano» dopo un
decennio di gavetta a cronaca nera e giudiziaria al «Il Mattino»
di Napoli. L’ultima intimidazione è arrivata lo scorso 22 marzo,
sotto forma di un bossolo esploso lasciato davanti alla porta del
giornale. Un proiettile firmato. Sopra, infatti, vi era appiccicata la
firma di Michele ritagliata da un suo articolo. Solo il giorno prima
aveva scritto degli appetiti politici, alla vigilia delle Regionali
2005, di un presunto mafioso, ucciso dal killer arrestato nel corso
della recente operazione «Mistero» condotta dalla Dda di Reggio.
Il 4 febbraio, invece è un pezzo sulla strage di Duisburg a metterlo
nei guai. Si occupava, quel giorno, – continua a farlo – del
processo Fehida, il procedimento che sta facendo luce su quella
strage e sulla faida di San Luca. È giorno d’udienza, in aula sono
ascoltati gli inquirenti tedeschi, gli stessi che hanno ricostruito
l’identikit di uno dei killer. Con ogni probabilità, sostengono più
e più volte, il viso del disegno è quello di Domenico Nirta, un
pizzaiolo trentenne che va e viene dalla Germania. Già arrestato
e prosciolto da ogni accusa dopo un rito abbreviato. Libero.
Senza nessun mandato di arresto sulle spalle, nonostante i rapporti
della polizia tedesca lo indichino come associato alla ’ndrina
di Kaarst. Michele sa: l’ordinanza di custodia cautelare che manca
«presto ci sarà». E lo scrive. Michele sa, lo ha visto, che Domenico
Nirta è a San Luca, anzi che verosimilmente ha già preparato
le valige ed è al sicuro fuori dal territorio italiano. E lo
scrive. Il pezzo va in pagina. Il giorno dopo si tratta di farsi un
giro a San Luca e vedere se Nirta è ancora all’ombra dell’Aspromonte
o è già oltre le Alpi.
«Dovevo trovarlo io – racconta – e invece mi ha trovato lui. Mi
ha chiamato al telefono prima a casa, e ancora in redazione per
dirmi che la mia presenza a San Luca non era gradita, che avrei
fatto meglio a non scrivere più il suo nome». Il giorno dopo, ancora
un’udienza in tribunale. Lo avvicina un giovane avvocato, un
praticante, che gli ribadisce il concetto: non mettere piede a San
Luca. Solo pochi giorni e con una lettera, il legale di Nirta gli comunica
che si riserba di citarlo in giudizio per danni all’immagine.
La Calabria brucia. È il caso di dirlo. Come il titolo di un for-
tunato libro di Mauro Minervino, lo scrittore calabrese che dopo
l’uscita del suo racconto-inchiesta è stato isolato e screditato. La
Calabria degli stereotipi e del sensazionalismo, un libro che fa
male a questa terra, hanno detto e scritto di lui e della sua opera.
Minervino conserva la sua cattedra di Antropologia culturale e
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osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza
2/ Questi alzano il tiro
nel frattempo ha perso le sue collaborazioni giornalistiche. Della
sua firma non c’è più bisogno.
La Calabria brucia. È il caso di dirlo, come la macchina del
blogger ventiseienne Antonino Monteleone che da anni, fra le altre
cose, sta dietro alle grandi e piccole lavanderie del clan De
Stefano, la ’ndrina dominante a Reggio città. Soldi sporchi che
vengono riciclati in alcuni esercizi commerciali del centro e del
lungomare più grande d’Europa. La sua auto è saltata in aria il
4 febbraio. Quella sera, Antonio, si è accorto di una macchina che
lo seguiva, che si è accostata al marciapiede mentre lui si fermava
e ingranava la retromarcia per parcheggiare. Entrato in casa,
il botto dopo pochi minuti. L’auto senza più il cofano, le fiamme.
Alcune settimane prima dell’incendio, era stato fermato per
strada, ci dice, dal fratello del gestore di un bar del centro: «Un
uomo che quando hanno arrestato De Stefano, gli indirizzava
baci plateali, e veniva corrisposto». «Non vanno toccati gli interessi
economici – continua – è quando tocchi quelli, che li fai
arrabbiare, quando metti la pulce nell’orecchio delle persone che
finiscono per non frequentare più i loro negozi». Storie piccole
forse, interessi minimi rispetto agli affari ben più remunerativi
della ’ndrangheta holding, eppure significativi, sicuramente da
non sottovalutare: il controllo del territorio dove la ’Ndrangheta
è cresciuta e dove trova l’origine del suo potere è ossessivo, anche
negli interessi più piccoli. Ne va della sua autorità, della sua capacità
di influenza e di controllo sociale.
Come Antonio, Francesco. Sulla soglia dei 40 anni. Redattore da
Vibo Valentia del «Quotidiano». Francesco Mobilio. La macchina
della sua compagna è saltata in aria il 27 dicembre, sotto casa.
Non sa darsi una spiegazione, Francesco. Dice che «l’hanno bruciata
a me perché volevano colpire la nostra testata, il giornale
che più di ogni altro si è consolidato in città come quello più
seguito». Si tratta di alcune sue inchieste, dice al telefono il suo
direttore. Ma non va oltre. Meglio non dire, per la sua incolumità.
Meglio non dirlo a un altro collega, ragionevolmente, prima
di averlo detto alla magistratura. E sì, perché Francesco Mobilio
ancora non è stato sentito. Nessun giudice lo ha interrogato sulla
vicenda. A distanza di tutti questi mesi.
Scorrendo a ritroso il calendario del 2009 rintracciamo ancora
due casi. Quello di Alessandro Bozzo e quello di Fabio Pistoia.
Entrambi in forza a «Calabria Ora». Minacciati rispettivamente
a ottobre e a giugno del 2009 per storie di mala politica del cosentino.
Nella zona di influenza del locale della Sibaritide, dominato
dal clan Forastefano di Cassano allo Ionio, uno dei più sanguinari
e pericolosi dell’intera regione. «Smettila di scrivere di
Cassano, sennò ti scippiamo la capa», è il testo della missiva
O2 ossigeno per l’informazione.Rapporto 2010
osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza
2/ Questi alzano il tiro
giunta nella redazione centrale di «Calabria Ora», dove Bozzo
scrive di politica. La sua colpa, dato che di Cassano ha scritto
solo una volta, quella di aver fatto notare che il presidente della
Provincia di Cosenza, eletto dopo una campagna elettorale a
suon di «Noi i voti dei mafiosi non li vogliamo», a poche settimane
dall’insediamento, ha voluto nel suo staff personale il primo
dei non eletti di una lista che lo appoggiava, imputato per
voto di scambio politico mafioso. A Fabio invece, la lettera è arrivata
a casa, fra il primo turno e il ballottaggio delle elezioni per
il rinnovo del consiglio comunale di Corigliano calabro, nel bel
mezzo della campagna elettorale funestata persino da un omicidio.
«Smetti di scrivere di politica o muori». Il pezzo riguardava
il sospetto di brogli avanzato dalla commissione elettorale dopo
lo spoglio del primo turno.
Lo scorso 8 marzo «Il Quotidiano» titola «’Ndrangheta strategia
della tensione». È l’ennesimo attacco a un magistrato. Questa
volta è toccato al Procuratore di Vibo Valentia Mario Spagnuolo.
Sentenze di morte scritte sui muri della città. Solo pochi giorni
prima le minacce erano arrivate al pm dell’antimafia reggina
Antonio De Bernardo e al magistrato crotonese Pierpaolo Bruni;
mentre nelle stesse ore veniva svelato il progetto di un attentato
all’on. Angela Napoli, da sempre impegnata con coraggio sul
fronte dell’antimafia. Una voce scomoda anche all’interno del
suo partito, del quale ha criticato fortemente le scelte di alcune
candidature in odore di mafia per il rinnovo del consiglio regionale.
«Se a questi episodi si aggiungono – spiega il direttore del
giornale calabrese Matteo Cosenza – la bomba in Procura a Reggio
e l’auto piena di armi fatta ritrovare il giorno dell’arrivo di
Napolitano, è possibile pensare che la ’Ndrangheta abbia attuato
una strategia volta a comunicare la sua presenza in vista delle
Regionali, per condizionare il voto, per dire: attenzione con i
proclami antimafia e le scelte virtuose di chi combatte in prima
persona, noi ci siamo, continuiamo a esserci, siamo noi i padroni
della Città».
In questo senso può essere letta anche l’incredibile escalation delle
minacce ai giornalisti? «Ogni storia è una storia a sé. Di sicuro
un’informazione attenta e scrupolosa, in questa terra, finisce sempre
per toccare interessi scomodi. E i colleghi minacciati, in particolare,
hanno svolto sempre bene il loro lavoro. Tuttavia non
può passare inosservato il dato di cinque casi in tre settimane, le
stesse in cui si rincorrevano gli episodi intimidatori contro politici
e magistrati impegnati. Tenderei comunque a considerare più
valido come movente delle minacce le storie professionali dei singoli
colleghi».
Ma dove è finita la ’Ndrangheta del silenzio, attenta solo ai suoi
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affari e a non farsi scatenare i riflettori addosso? Sembra sia diventata
una mafia chiacchierona… «In effetti, è un po’ una novità
per la ’Ndrangheta. Sembra la mafia siciliana di un certo
periodo. Il problema è che nel frattempo quella calabrese è diventata
la mafia più potente di tutte e anche il contrasto nei suoi
confronti è aumentato, soprattutto da parte di una magistratura
più incisiva rispetto agli anni passati. Si sta determinando uno
scenario nuovo in cui la ’Ndrangheta parla attraverso messaggi
di questo tipo. Prima c’era e non si vedeva ora c’è e si vede pure.
Siamo entrati in una fase nuova anche rispetto al lavoro dei giornalisti,
e chi vuole migliorarsi nel fare il suo lavoro è più colpito.
Ci sono cronisti che in certi territori mettono seriamente a rischio
la vita. La cosa comincia a diventare preoccupante. Gli stessi
magistrati ci chiedono di dare massima enfasi agli episodi perché
è una forma di protezione. Il rischio è reale. Il rischio che questi
un giorno decidano di alzare il tiro».
Al momento di chiudere questo Rapporto abbiamo appreso che...
1) Il 3 maggio 2010 arriva una lettera accompagnata da un
proiettile alle redazioni palermitane de «la Repubblica» e del
«Giornale di Sicilia». Le buste sono partite da Firenze. Nella lettera
si fa riferimento ai giudici Antonio Ingroia, Nino Di Matteo e
Sergio Lari, a Massimo Ciancimino e al pentito Gaspare Spatuzza,
«soggetti che direttamente o indirettamente – si legge – subiranno
le conseguenze di operazioni già pianificate». «In attesa di
decisioni», secondo la missiva, invece, le sorti di Michele Santoro
e Sandro Ruotolo indicati come «giornalisti in appoggio ad un
disegno eversivo intrapreso da magistrati comunisti». Ecco il testo
completo della lettera: «Illustre direttore. Non analizzi il contenuto
di questo comunicato come un minaccia, i grandi eventi
vanno annunciati. Lo si era fatto in passato, con scarsi risultati.
Il malessere e sotto gli occhi di tutti. Sono stata disposte
operazioni a sostegno della nostra democrazia. Tumori generati
da u eccesso di ruoli all’interno del nostro sistema di poteri.
Nessun altro ostacolo può essere posto a danno di questo unico
principio di democrazia. Un vero attacco a degni e valorosi uomini
che hanno dato dignità al nostro paese è tuttora in corso.
A. Ingroia - S. Lari - A. Di Matteo - M. Ciancimino - G. Spatuzza
soggetti che direttamente o indirettamente subiranno le
conseguenze di operazioni già pianificate. M. Santoro\Ruotolo
in attese di decisioni. Il triste ruolo come giornalisti in appoggio
ad un disegno eversivo intrapreso da magistrati comunisti è la
mortificazione delle più elementari… (illeggibile, ndr) e di democrazia».
Lo stesso giorno, sempre un proiettile imbustato a Francesca
Russo, avvocato di Ciancimino Junior, e il seguente messaggio:
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2/ Questi alzano il tiro
«Avvocatessa F. Russo lei avvocato con il suo comportamento
continua a disonorare il ruolo che nonostante le sue origini questo
nostro paese in un eccesso di libertà le ha concesso. Se vuole
ascoltare il mio invito ad omettere comportamenti intenti ad
accreditare il pentito M. Ciancimino. Lei rimane attenzionata
dalle nostre strutture di sorveglianza».
Attorno alla figura di Massimo Ciancimino, all’avvocato che lo
assiste, ai giudici che raccolgono le sue dichiarazioni, ai giornalisti
che danno notizie a riguardo, negli ultimi mesi si è scatenato un
pressing intimidatorio senza precedenti, con continui riferimenti
a magistratura deviata, democrazia a rischio, giornalisti comunisti
da eliminare. Un saggio di questi contenuti farneticanti, in
un’altra lettera inviata direttamente a Massimo Ciancimino lo
scorso due aprile. Riferimenti a giudici, politici, pentiti e a Michele
Santoro. La questione, ancora una volta, è la luce che si sta
facendo intorno al patto siglato tra Stato e mafia dopo la morte
del giudice Falcone. Ecco il contenuto integrale della lettera: «Sig.
Ciancimino, spero che questa lettera le sia recapitata, come da
mie istruzioni, nella giornata del 2 aprile, lei sa a cosa mi riferisco.
La invito a non interpretare le mie poche parole come una
minaccia contro di lei ed i suoi familiari. Consideri poche righe
come un buon consiglio dato da una persona che anche suo padre
a saputo apprezzare e stimare, e che comunque oggi è a conoscenza
di fatti e circostanze tali da poterle essere, forse, ancora
di aiuto. Questo non solo per il mio ruolo svolto per il Paese, ma
sicuramente per l’esperienza accumulate in tanti anni di onorati
servizi resi. Equilibri e democrazia costituiscono le basi per un
nuovo percorso di globalizzazione ed integrazione che con molto
sacrificio il paese sta attraversando. In questo momento molto
difficile per la nostra democrazia non sono concessi ed ammessi
ulteriori sbagli. Oggi lei e le sue dichiarazioni contribuiscono ad
infangare illustri personaggi che hanno lavorato per poter garantire
un Italia libera ed anticomunista mentre oggi il nostro governo
tenta di salvare posti di lavoro, milioni di euro di ignari contribuenti
e numerosi servitori dello Stato vengono impegnati in
inutili inchieste che altro non fanno che mortificare l’immagine
del nostro paese. Un solo fine, la democrazia è il frutto di più
azioni. La nostra è una grande cultura di libertà e democrazia,
questa cultura oggi le permette di esibirsi in pantomime giudiziarie,
complice di magistrati e giornalisti di fede comunista, ultimo
misero strumento di un piano eversivo e destabilizzante. La libertà
come qualsiasi organismo vivente, talvolta genera tumori.
M. Ciancimino - G. Spatuzza - A. Ingroia - S. Lari - A. Di Matteo
- C. Martelli - M. Santoro - L. Violante. Le assicuro che ba-
nali ed elementari tecniche di tutela civile a protezione di questi
soggetti non costituiscono alcun ostacolo per i nostri scopi. Il
dovere mi impone di avvisare chi come lei, ignaro del disegno
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2/ Questi alzano il tiro
altrui, oggi rappresenta uno strumento di lotta. Sappiamo fare il
nostro mestiere. Nonostante i numerosi tentativi fatti in passato,
non siamo riusciti ad aprirle gli occhi. Oggi lei e la sua famiglia
siete ostaggi nelle mani di una magistratura deviata. Nonostante
gli inutili sforzi fatti, gli ultimi tentativi delle misere ed inutili
azioni dei magistrati A. Ingroia e compagni, non sono riusciti ad
ostacolare o confondere la sovrana volontà del popolo elettore.
oggi sono in gioco i destini della nostra democrazia. L. Violante e
C. Martelli recidivi traditori della democrazia. Sappiamo tutto
sul contenuto delle deposizioni fatte con i magistrati S. Lari e
compagni ed A. Ingroia e compagni, ulteriore aggressione intrapresa
col fine di coinvolgere ed infangare illustri servitori dello
Stato. uomini che, a differenza di taluni magistrati hanno anteposto
i più alti ed onorabili valori alla loro stessa esistenza. Almeno
questa volta usi la sua testa, da questa gente non potrà mai
ottenere niente, non vada più a farsi usare dalle procure come
quelle di Palermo e di Caltanissetta, non si faccia coinvolgere
ulteriormente. Un consiglio vada via dall’Italia, taluni crediti
non possono essere più posticipati. Sono state disposte più operazioni
a garanzia della democrazia, tutte in attesa di essere eseguite.
Un solo fine frutto di più azioni, cinque, un numero che dovrebbe
farla riflettere, le mie credenziali in busta».
2) «Immersi nelle notizie del braccio di ferro di Gianfranco Fini
contro l’asse Berlusconi-Bossi all’interno del Pdl e del governo,
abbiamo sottovalutato in questi giorni l’attacco che il premier ha
rivolto il 16 aprile contro le fiction e i libri sulla mafia, accanendosi
nei confronti di Roberto Saviano e di Gomorra. Sull’argomento
Silvio Berlusconi è recidivo. (…) Hanno un peso in questo
sconcertante approccio di Berlusconi le incognite che gravano
nelle inchieste aperte sulle stragi mafiose degli anni ’90 e sulla
trattativa fra lo Stato e Cosa Nostra che segnò la fine della prima
Repubblica, coincidendo con l’ascesa politica di Forza Italia
e, anche se non definitivamente provato, con l’avvio stesso delle
fortune economiche del Cavaliere? Il ruolo di Marcello Dell’Utri
nei rapporti con Cosa Nostra, il giudizio pendente in Appello
dopo la sua condanna in primo grado per concorso esterno in
associazione mafiosa, sono oggettivi e inquietanti indizi in questa
direzione... Una cosa è certa: le ripetute sortite contro una comunicazione
antimafia che ha segnato un positivo salto di qualità
nella conoscenza degli italiani di un fenomeno che mina le
basi stesse dei diritti e dello sviluppo dell’Italia, richiamano nell’immaginario,
ma anche alla ragione, i comportamenti di una
sorta di “serial killer”. Killer della memoria».
«Il serial killer della memoria e della libera informazione». L’editoriale,
di cui riportiamo i passaggi più significativi, è apparso su
Articolo 21 e su Libera Informazione. Porta la firma di Roberto
Morrione, direttore dell’Osservatorio sull’informazione di Libera.
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2/ Questi alzano il tiro
La notte successiva alla pubblicazione, la redazione di Articolo
21, a Roma, ha subito un’effrazione. Sette computer sono stati
rubati e, con essi, la chiave di accesso al sito web. Poi è stato
manomesso il notiziario online di Articolo 21 e cancellato l’articolo
di Morrione. Al suo posto gli hacker hanno messo l’immagine
di un teschio, e un link ad un sito pornografico. Il giorno
dopo lo stesso assalto, allo stesso editoriale, è stato ripetuto sul
sito di Libera Informazione. Due attacchi in due giorni. Un episodio
di pirateria informatica dedita al bavaglio che accade in
Italia per la prima volta.
3) Caserta, la notte del 27 aprile 2010. Qualcuno entra in casa
di Rosaria Capacchione, giornalista de «Il Mattino», una vita
sotto scorta dopo le minacce ricevute per il suo impegno anticamorra.
La cronista dormiva nel suo letto. Non si è accorta di
nulla. «Sono entrati dalla finestra della cucina – racconta la Capacchione
all’Ansa – hanno preso una borsa, una trousse del
trucco, ma l’hanno subito abbandonata. Magari sono stati disturbati
». Ladri, forse. Hanno rovistato nell’appartamento e non
hanno portato via nulla. Non è la prima volta. Nell’ottobre 2009
un episodio analogo. Sconosciuti che si intrufolano di notte in
casa, frugano dove possono, rubano oggetti di poco valore e
scompaiono. Questa volta nel mirino anche altri condomini. Un
furto, secondo la giornalista. Un fatto, comunque inquietante,
che apre interrogativi sulla sua forma di protezione.
4) «La lezione gliela daremo noi e lo faremo a pezzi. State attenti
anche voi giornalisti». La lettera è arrivata lo scorso 11 marzo
alla redazione di «Barisera». Dentro alla busta, anche la cartuccia
di un fucile calibro 7,65 e la fotocopia di un articolo pubblicato
da quel giornale col quale si dava conto di un incontro sulla
mafia pugliese che il criminologo Michele Cagnazzo aveva tenuto
il giorno prima in città.
Cagnazzo è autore del saggio «Mafia, una guerra senza confini»,
attualmente dirige l’Osservatorio Regionale sulla Legalità dell’Italia
dei Valori. Da anni scrive e parla della «Quarta mafia», un’organizzazione
innovativa e diversa rispetto alla Sacra Corona Unita.
Intervistato da Affari italiani, ha dichiarato: «Molti, in maniera
omissiva nel migliore dei casi, delittuosa nel peggiore, continuano
a parlare di Sacra Corona Unita. Ma la SCU è morta.
Ormai gli esperti parlano di Quarta mafia. La vecchia mafia
rurale è morta. Oggi la mafia pugliese, oltre alle tradizionali attività
delle estorsioni, dello sfruttamento della prostituzione, delle
rapine e del traffico di droga, ha a disposizione un solidissimo
potere economico e politico, grazie alla collaborazione e alla connivenza
di imprenditori, funzionari e consiglieri pugliesi. Sono
quest’ultimi quelli più infastiditi dalla nostra attività. Parliamoci
chiaro: noi non disturbiamo soltanto i rapinatori di banche o i
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2/ Questi alzano il tiro
trafficanti di droga. Noi disturbiamo i colletti bianchi, quelli che
fanno affari con la criminalità organizzata a suon di appalti, concessioni
e riciclaggio di denaro sporco. E quando un colletto
bianco si sente disturbato non gli resta che alzare il telefono e
chiedere a un manovale dei clan di limitarsi a minacciare una
data persona. È questo quello che è successo».
Nel 2008, gli è stata recapitata una lettera con due proiettili, ed
è stata abbandonata davanti la sua abitazione la testa mozzata
di un cane. Negli ultimi tempi, la sua battaglia è stata a favore
dell’istituzione dell’Agenzia regionale sui beni confiscati. Una
struttura che snellisca tutte le procedure di confisca dei beni e
permetta di facilitarne l’uso per fini sociali e istituzionali. L’obiet-
tivo è evitare che le proprietà confiscate ai mafiosi ritornino in
loro possesso, attraverso le messa all’asta. Per le minacce subite,
ha detto, ha ricevuto solidarietà da parte dei pochi amici di partito,
ma nessun attestato di stima è arrivato dalle istituzioni.
5) «Chiama pure i carabinieri. Noi non abbiamo paura neanche
di loro». Il 12 maggio 2010 due uomini piombano nella redazione
del settimanale «Nuova Periferia», in via Paolo Regis a Chivasso,
provincia di Torino. Minacciano la segretaria e i giornalisti
presenti. Poi se la prendono con Marco Bogetto, cronista di nera.
Calci e schiaffi. Tanto che il collega deve ricorrere alle cure del
Pronto Soccorso per una lesione al timpano provocata dal ceffone.
Colpevole. Colpevole di aver scritto un articolo sulla nuova sala
giochi della città, danneggiata nella notte da alcuni vandali.
«Devastata la nuova sala giochi: ingenti danni per almeno
20mila euro» è il titolo in prima pagina. Il giornale esce in edicola.
Alle 9.45 la spedizione punitiva. Sono i titolari del locale a
menar le mani, padre e figlio, Giuseppe e Guido Carbone. Bogetto
difende un collega, ha la peggio.
«È un episodio grave – commenta il direttore Piera Savio – che
mette in luce, per l’ennesima volta, come sia difficile il lavoro per
un giornalista di provincia. Facilmente identificabile».
6) «Municipi diffamati, informazione servile». Il messaggio è
scritto su un lenzuolo bianco a tinte rosse e azzurre. Sotto la finestra
de «Il Messaggero», in via del Tritone, a Roma, le grida di
alcuni Presidenti dei Municipi, accompagnati da assessori e consiglieri
comunali. È la mattina del 6 maggio 2010. Pochi giorni
prima il quotidiano aveva proposto ai suoi lettori un’inchiesta
sugli sperperi e gli sprechi delle amministrazioni.
«Una campagna calunniosa, basata sulle veline del Campidoglio
», sostengono i minisindaci di centrosinistra, che chiedono di
incontrare un caporedattore. «Una manifestazione intollerabile
per intimidire i giornalisti – denuncia l’Unione Nazionale Cronisti
– un episodio di intolleranza grave in tempi di voglia di
bavagli e censure del sistema dei poteri, a cominciare dal Ddl
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2/ Questi alzano il tiro
Alfano. Le inchieste erano condotte con documenti alla mano e
spulciando tra le pieghe dei bilanci secondo i più rigorosi principi
del mestiere. In troppi si dimenticano o fingono di dimenticarsi
che i cronisti non sono passacarte di comunicati e veline e che il
diritto/dovere di cronaca coincide con il diritto dei cittadini di
essere compiutamente informati sulla condotta dei loro amministratori».
7) Le minacce per Davide Desario, cronista de «Il Messaggero»,
corrono sul web. Frasi pesanti postate su facebook dopo un suo
articolo, pubblicato sulle pagine di Roma il 13 aprile 2010.
«Verano, sede gratis all’associazione D’Annunzio» è il titolo dell’inchiesta.
«Un’assegnazione davvero speciale che merita di essere
approfondita – denuncia Desario nel suo pezzo. Basti pensare
che il Presidente dell’associazione D’Annunzio è Cristina Giannotta,
sorella di quel Mirko dipendente dell’Ama a capo dell’ufficio
Decoro Urbano.»
«La dinasty Giannotta», la chiama il cronista. «Il più famoso –
spiega – è Carlo Giannotta, storico Presidente della sezione dell’ex
Movimento Sociale di Acca Larenzia, una delle più estreme
della destra sociale capitolina. Un altro Giannotta famoso, suo
malgrado, è Fabio nato a Roma nel 1977. In molti lo ricorderanno
per essere stato arrestato per la tentata rapina alla gioielleria
Bulgari in via Condotti utilizzando un carroattrezzi. Ma non
solo: Fabio Giannotta è stato arrestato anche dopo, sempre per
una rapina a una gioielleria al Tuscolano.»
«Da circa due anni, poi, – chiosa l’articolo – è balzato agli onori
della cronaca anche Mirko Giannotta (dipendente Ama dal 1998
e coinvolto in alcune inchieste della Digos) che nel 2008 è stato
chiamato a guidare l’ufficio Decoro Urbano del Campidoglio.
Bene, tutti e tre, insieme a Cristina Giannotta, a maggio del
2003 erano tra gli 8 soci dell’associazione D’Annunzio. Perché?
Semplice appartengono tutti alla stessa famiglia.»
Poche ore dopo, puntuale, arriva l’intimidazione sul suo profilo
di Facebook. Attacchi pesanti da parte del gruppo di estrema destra
Acca Larenzia. La sua colpa? Aver fatto emergere una realtà
inquietante sulla gestione delle proprietà immobiliari di Ama srl,
una gestione privata del bene pubblico.
8) «Sei un uomo morto, qui non possiamo farti niente ma ormai
sei segnato». La minaccia è arrivata a tu per tu. In aeroporto a
Verona. Destinatario, Alessandro Capatano, giornalista sportivo in
forza alla «Gazzetta». È accaduto lo scorso 16 maggio, dopo la
partita Chievo-Roma. La parolina sussurrata all’orecchio da un
famigerato ultrà romanista è presto diventata l’aggressione di un
gruppo di facinorosi che lo hanno accerchiato e insultato, dopo
avergli strappato di mano il taccuino. Uno del gruppo ha poi
preso a pugni il computer di un collega di Capatano che aveva
provato a difenderlo. Atterrato a Fiumicino, le minacce e gli insulti
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sono continuate. L’aggressore è stato denunciato per minacce
aggravate.
Non è la prima volta che un gruppo di ultrà minacci dei giornalisti.
Alcuni giornalisti de «Il Secolo XIX» e di «Telegenova», il 19
ottobre del 2008, sono stati presi di mira da tifosi sampodoriani
perché, secondo gli ultrà, le loro cronache avrebbero influito nel
risultato negativo della squadra.
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